Sant’ Amelia Vergine e martire: 5 gennaio Gerona (Catalogna in Spagna), 304 ca.                       Questa santa di cui non si sa praticamente nulla della sua vita, appartiene ad un numeroso gruppo di martiri cristiani, uccisi a Gerona città della Catalogna in Spagna, durante il IV secolo. La notizia è riportata in un antico Breviario di Gerona che pone questo lungo elenco di martiri all’epoca della persecuzione di Diocleziano (243-313). Nel 1336 il vescovo di Gerona Arnau de Camprodón, scoprì le reliquie dei martiri e dedicò ad essi un altare nella cattedrale cittadina, poi nei secoli questi martiri, elencati in una lunga lista dal ‘Martirologio Geronimiano’, sono stati celebrati a gruppi in date diverse, di alcuni di essi il suddetto Martirologio e altri documenti e iscrizioni lapidarie, riportano i nomi con qualche piccola aggiunta; è il caso dei martiri Germano, Giusturo, Paolino e Sicio, con festa al 31 maggio, Paolino e Sicio sarebbero antiocheni, mentre Germano, Giusturo e tutti gli altri dell’elenco sembrano essere africani. Altri nomi più conosciuti sono s. Felice (1° agosto), ss. Romano e Tommaso che furono crocifissi (8 giugno). Come si vede il solo nome della martire Amelia, riportato nel lungo elenco dei martiri per la fede, morti a Gerona, ma inquadrati nella grande carneficina che infuriò nell’impero romano, durante la persecuzione di Diocleziano, non ci permette di sapere altro. Il nome Amelia / Amelio usato soprattutto al femminile, deriva da ‘Amali’ nome di una potente famiglia Ostrogota ed ha il significato di “vergine senza macchia”. Altre interpretazioni etimologiche lo indicano come continuazione del nome gentilizio latino ‘Amelius’ derivato da ‘Amius’ di probabile origine etrusca; inoltre è indicato come una variante del nome Amalia, ma che comunque nel tempo si è affermato con una valenza propria. Il nome Amelia ha ancora una certa diffusione in Italia, mentre è pressoché scomparso il maschile Amelio. Autore: Antonio Borrelli.   FONTE: http://www.santiebeati.it/de.  Nome: Sant’ Amelia.                                           Titolo: Vergine e Martire. Ricorrenza: 5 gennaio. Protettore di: minatori

 

 

 

 

Sant’ Antonio Abate 17 gennaio Coma, Egitto, 250ca.–Tebaide (Alto Egitto), 17 gennaio 356  
Caposcuola del Monachesimo. Titolo: Abate. Ricorrenza: 17 gennaio. Protettore degli animali.     
   Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto. Verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco            patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare. Attratto dall’ammaestramento evangelico «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi», e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa   strada. Vendette dunque i suoi beni, affidò la sorella a una comunità di vergini e si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese. Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato. Vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva, si alzava e pregava; subito dopo, riprendeva a lavorare e di nuovo a pregare. Era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera che, due secoli dopo, avrebbe costituito la base della regola benedettina «Ora et labora» e del Monachesimo Occidentale. Antonio si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma. Un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane; per il resto, si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi. Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più   lontano verso il Mar Rosso. Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva: Antonio vi si trasferì nel 285 e vi rimase per 20 anni. Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane. Venne poi il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica giunsero al fortino e lo abbatterono. Antonio uscì e cominciò a consolare gli afflitti, ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli. Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume. Ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale. A tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito e l’unione con Dio. Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita sant’Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero: i due si scambiarono le loro esperienze sulla vita eremitica. Nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo: si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede, desideroso lui stesso del martirio. Forse   perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato, ma le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana. Sostenne con la sua  influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, sant’Atanasio, che combatteva l’eresia ariana. Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel       fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato. Andò dunque nel deserto della Tebaide, nell’Alto Egitto, dove prese a coltivare un piccolo orto per il sostentamento suo e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui. Visse nella Tebaide fino al termine della sua     lunghissima vita. Morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.. Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.. Nel giorno della sua memoria liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici. In alcuni paesi di      origine celtica, sant’Antonio   assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, Lugi il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Perciò, in varie opere d’arte, ai suoi piedi c’è un cinghiale. Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o    macellato, è anche il patrono di quanti  lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes     zoster. Ancora oggi il 17 gennaio, specie nei paesi agricoli e nelle cascine, si usano accendere i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di sant’Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e    fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla        imminente primavera. Le ceneri, poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e, tramite un’apposita campana fatta con listelli di legno, per asciugare i panni umidi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo.
Testo (parzialmente riprodotto): Antonio Borrelli                                                       FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/22300                                                        
San Bruno (Brunone) Sacerdote e monaco 6 ottobre – Memoria Facoltativa Colonia (Germania), circa 1030 – Serra San Bruno (Vibo Valentia), 6 ottobre 1101
Titolo: Sacerdote e monaco. Ricorrenza: 6 ottobre.          
      Nato in Germania, e vissuto poi tra il suo Paese, la Francia e l’Italia, il nobile renano Bruno o Brunone è vero figlio dell’Europa dell’XI secolo, divisa e confusa, ma pure a suo modo aperta e propizia alla mobilità. Studente e poi insegnante a Reims, si trova presto faccia a faccia con la simonia, cioè col mercato delle cariche ecclesiastiche che infetta la Chiesa.          Professore di teologia e filosofia, esperto di cose curiali, potrebbe diventare vescovo per la via onesta dei meriti, ora che papa Gregorio VII lotta per ripulire gli episcopi. Ma lo disgusta l’ambiente. La fede che pratica e che insegna è tutt’altra cosa, come nel 1083 gli conferma Roberto di Molesme, il severo monaco che darà vita ai Cistercensi. Bruno trova sei compagni che la pensano come lui, e il vescovo Ugo di Grenoble li aiuta a stabilirsi in una località selvaggia detta “chartusia” (chartreuse in francese). Lì si costruiscono un ambiente per la preghiera comune, e sette baracche dove ciascuno vive pregando e lavorando: una vita da eremiti, con momenti comunitari. Ma non pensano minimamente a fondare qualcosa: vogliono soltanto vivere radicalmente il Vangelo e stare lontani dai mercanti del sacro. Quando Bruno insegnava a Reims, uno dei suoi allievi era il benedettino Oddone di Châtillon. Nel 1090 se lo ritrova papa col nome di Urbano II e deve raggiungerlo a Roma come suo consigliere. Ottiene da lui riconoscimento e autonomia per il monastero fondato presso Grenoble, poi noto come      Grande Chartreuse. Però a Roma non resiste: pochi mesi, ed eccolo in Calabria nella Foresta della Torre (ora in provincia di Vibo Valentia); e riecco l’oratorio, le celle come alla Chartreuse, una nuova comunità guidata col solito rigore. Più tardi, a poca distanza, costruirà un altro monastero per chi, inadatto alle asprezze eremitiche, preferisce vivere in comunità. E’ il luogo accanto al quale sorgeranno poi le prime case dell’attuale Serra San Bruno. I suoi pochi confratelli (non ama avere intorno gente numerosa e qualunque) devono essere pronti alla durezza di una vita che egli insegna col consiglio e con istruzioni scritte, che dopo la sua morte troveranno codificazione nella Regola, approvata nel 1176 dalla Santa Sede. E’ una guida all’      autenticità, col modello della Chiesa primitiva nella povertà e nella gioia, quando si cantano le lodi a Dio e quando lo si serve col lavoro, cercando anche qui la perfezione, e facendo da maestri ai fratelli, alle famiglie, anche con i mestieri splendidamente insegnati. Sempre pochi e sempre vivi i certosini: a Serra, vicino a Bruno, e altrove, passando attraverso guerre,     terremoti, rivoluzioni. Sempre fedeli allo spirito primitivo. Una comunità “mai riformata, perché mai deformata”. Come la voleva Bruno, il cui culto è stato approvato da Leone X (1513-1521) e confermato da Gregorio XV (1621-1623).
Testo (parzialmente riprodotto): Domenico Agasso                                                   FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/29400                                                       
Chiara Vergine 11 agosto Assisi, 1193/1194 – Assisi, 11 agosto 1253                    
Titolo: Vergine Ricorrenza: 11 agosto.  Protettrice delle coccinelle,  telecomunicazioni,  televisioni.
               La sera della domenica delle Palme (1211 o 1212) una bella ragazza diciottenne fugge dalla sua casa in Assisi e corre alla Porziuncola, dove l’attendono Francesco e il gruppo dei suoi frati minori. Le fanno indossare un saio da penitente, le tagliano i capelli e poi la ricoverano in due successivi monasteri benedettini, a Bastia e a Sant’Angelo. Infine Chiara prende dimora nel piccolo fabbricato annesso alla chiesa di San Damiano, che era stata restaurata da Francesco. Qui Chiara è stata raggiunta dalla sorella Agnese; poi dall’altra,     Beatrice, e da gruppi di ragazze e donne: saranno presto una cinquantina. Così incomincia, sotto la spinta di Francesco d’Assisi, l’avventura di Chiara, figlia di nobili che si oppongono anche con la forza alla sua scelta di vita, ma invano. Anzi, dopo alcuni anni andrà con lei anche sua madre, Ortolana. Chiara però non è fuggita “per andare dalle monache”, ossia per entrare in una comunità nota e stabilita. Affascinata dalla predicazione e dall’esempio di Francesco, la ragazza vuole dare vita a una famiglia di claustrali radicalmente povere, come singole e come monastero, viventi del loro lavoro e di qualche aiuto dei frati minori, immerse nella preghiera per sé e per gli altri, al servizio di tutti, preoccupate per tutti. Chiamate popolarmente “Damianite” e da Francesco “Povere Dame”, saranno poi per sempre note come “Clarisse”. Da Francesco, lei ottiene una prima regola fondata sulla povertà. Francesco consiglia, Francesco ispira sempre, fino alla morte (1226), ma lei è per parte sua una protagonista, anche se sarà faticoso farle accettare l’incarico di abbadessa. In un certo modo essa preannuncia la forte iniziativa femminile che il suo secolo e il successivo vedranno svilupparsi nella Chiesa. Il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia e protettore dei Minori, le dà una nuova regola che attenua la povertà, ma lei non accetta sconti: così Ugolino, diventato papa Gregorio IX (1227-41) le concede il “privilegio della povertà”, poi confermato da Innocenzo IV con una solenne bolla del 1253, presentata a Chiara pochi giorni prima della morte. Austerità sempre. Però “non abbiamo un corpo di bronzo, né la nostra è la robustezza del granito”. Così dice una delle lettere (qui in traduzione moderna) ad Agnese di Praga, figlia del re di Boemia, severa badessa di un monastero ispirato all’ideale francescano. Chiara le manda consigli affettuosi ed espliciti: “Ti supplico di moderarti con saggia discrezione nell’austerità quasi esagerata e impossibile, nella quale ho saputo che ti sei avviata”. Agnese dovrebbe vedere come Chiara sa rendere alle consorelle malate i servizi anche più umili e sgradevoli, senza perdere il sorriso e senza farlo perdere. A soli due anni dalla morte, papa Alessandro IV la proclama santa. Chiara si distinse per il culto verso l’Eucarestia. Per due volte Assisi venne minacciata dall’esercito dell’imperatore Federico II che contava, tra i suoi soldati, anche  saraceni. Chiara, in quel tempo malata, fu portata alle mura della città con in mano la pisside contenente il Santissimo Sacramento: i suoi biografi raccontano che l’esercito, a quella vista, si dette alla fuga.
Testo (parzialmente ridotto):  Domenico Agasso                                                                        FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/24000
San Donato di Arezzo Vescovo e martire 7 agosto m. Arezzo, 7 agosto 362.         
    Della vita del santo si ha conoscenza da un’antica ‘Passio’ scritta secondo la tradizione da Severino vescovo, suo secondo successore sulla cattedra vescovile di Arezzo. Bisogna dire che l’intera ‘passio’ porta in sé notizie certe ma anche altre che nel tempo sono state confutate dagli stessi agiografi, perché non rispondenti alle date storiche abbinate a certuni      personaggi che vi compaiono; la stessa qualifica di martire è posta in incertezza perché in tanti antichi documenti egli è menzionato come “episcopi et confessoris”, tenendo conto che già a partire dal IV secolo il termine “confessore” assumeva per i santi il significato attuale che non è di martire. Donato sarebbe morto martire, secondo la tradizione, il 7 agosto 362 sotto Giuliano l’Apostata. Nato a Nicomedia, ancora fanciullo venne a Roma con la famiglia, qui fu educato da Pimenio prete e fatto chierico; suo compagno di studi e di formazione religiosa era Giuliano, ma mentre costui giunse a diventare suddiacono della Chiesa di Roma, Donato rimase semplice lettore. S. Pier Damiani nei suoi Sermoni così commenta: “ Ecco che nel campo del Signore crescono assieme due virgulti, Donato e Giuliano, ma uno di essi diverrà cedro del Paradiso, l’altro carbone per le fiamme eterne”. Infatti divenuto imperatore ed apostata, Giuliano promulgò una nuova persecuzione contro la Chiesa, prima con l’interdizione ai cristiani dell’insegnamento nelle scuole, cariche pubbliche e carriera militare e poi nell’autunno del 362 anche con la violenza nei loro confronti. Nella città di Roma, furono vittime fra gli altri i suoi devoti genitori ed il prete Pimenio, allora Donato fugge ad Arezzo  accolto dal monaco Ilariano a cui si affianca nell’apostolato, penitenza e preghiera; con lui opera tra il popolo prodigi e conversioni. La ‘passio’ racconta di miracoli eclatanti, fra i tanti, fa risuscitare una donna di nome Eufrosina che aveva in custodia una ingente somma di denaro, ma che con la sua improvvisa morte non si trovava più; fa vedere di nuovo ad una   povera cieca a cui dona anche la luce della fede, di nome Siriana; libera dal demonio il figlio del prefetto di Arezzo, Asterio. Viene poi ordinato diacono e sacerdote dal vescovo Satiro e prosegue così la sua opera con predicazioni in città e nelle circostanti campagne. Alla morte del vescovo, viene scelto a succedergli e quindi ordinato vescovo dal papa Giulio I, prosegue la sua opera con rinnovato zelo e altri prodigi lo confortano e gli danno popolarità. Durante la celebrazione della Messa, al momento della Comunione ai fedeli nelle due specie, mentre egli distribuisce il pane e il suo diacono Antimo distribuisce con un calice di vetro il vino, entrano nel tempio i pagani che con violenza mandano in frantumi il calice fra la costernazione dei fedeli. Donato allora, dopo intensa preghiera, raccoglie i frammenti e li riunisce, ma manca un pezzo del fondo del calice, egli noncurante continua a servire il vino senza che esso cada dal fondo mancante; fra lo stupore generale provocato dal miracolo ben 79 pagani si convertono. Ma un mese dopo l’episodio, il prefetto di Arezzo, Quadraziano, fa arrestare sia Ilariano che Donato, i quali vittime della nuova persecuzione indetta da Giuliano l’Apostata, vengono uccisi, Ilariano monaco ad Ostia il 16 luglio e Donato vescovo decapitato ad Arezzo il 7 agosto. Donato è rappresentato nell’arte in vesti vescovili e i suoi attributi sono il calice di vetro          riferendosi al miracolo suddetto e il drago da lui combattuto vittoriosamente. Protettore di Arezzo, è celebratissimo in città, il suo busto si trova in un grosso d’argento della Repubblica Aretina del sec. XIII custodito al Museo Nazionale di Napoli; nella cattedrale di Arezzo vi è la ricca arca    marmorea del suo corpo con decine di formelle a cui hanno lavorato artisti insigni, narranti la vita e i suoi miracoli. Donato è un nome dato ad un figlio molto atteso, di origine latina, diminutivo: Donatello.
Testo (parzialmente ridotto): Antonio Borrelli.                                                              FONTE SANTI E BEATI : http://www.santiebeati.it/dettaglio/33900
La vetrata realizzata

 

Santa Maria Faustina Kowalska Vergine 5 ottobre Glogowiec, Polonia, 25 agosto 1905 – Cracovia, Polonia, 5 ottobre 1938                                                                                  
Suor Faustina, terzogenita di dieci figli, nacque il 25 agosto 1905 da una povera famiglia di contadini di Glogowiec in Polonia. Nel battesimo, le venne posto il nome di Elena. La        famiglia Kowalski viveva di un piccolo podere agricolo e dell’attività di falegname del padre Stanislao, un uomo religioso. Nella famiglia Kowalski la fede costituiva l’elemento          essenziale della vita: Dio era sempre al primo posto e ogni giorno la preghiera si univa armoniosamente al lavoro.. Anche se la famiglia viveva poveramente del duro lavoro, tuttavia riusciva a trovare sia il denaro per comprare i libri religiosi sia il tempo per la lettura fatta in comune. Sono state proprio queste letture a far nascere la disposizione alla vita religiosa nell’animo della piccola Elena che fin dall’infanzia voleva vivere per Dio come i protagonisti di questi libri. Elena lasciò la casa natale quando aveva 16 anni portando con sé il tesoro della fede, l’amore per la preghiera, i sani principi della morale cristiana, nonché le virtù della laboriosità, dell’obbedienza e un forte senso di responsabilità. Prima andò ad             Aleksandrów, vicino a Lódz dove lavorò come domestica dalla Signora Leokadia Bryszewska. In quel periodo ebbe la misteriosa visione del « chiarore ». Dopo tale evento tornò a casa per    chiedere il permesso di entrare in un convento. I genitori, pur essendo persone molto religiose, non volevano perdere la figlia migliore e giustificarono il rifiuto del permesso con la mancanza di denaro per la dote. Ma Elena non si perse d’animo e decise di tornare a lavorare come domestica a Lódz. Prima trovò lavoro presso le Terziarie Francescane e dopo, presso Marcjanna Sadowska, la quale le affidò il compito di occuparsi della casa e dei bambini. Mancandole il consenso dei genitori, Elena cercava di soffocare la voce della chiamata di Dio. Informò la sorella della sua decisione di entrare in convento e, le chiese di salutare i genitori e partì per la capitale. Non conoscendo la città la prima cosa che fece fu di entrare nella chiesa di San Giacomo. Dal parroco ricevette l’indirizzo di una famiglia, presso la quale avrebbe potuto fermarsi finché non fosse stata accolta in un convento. Finalmente bussò alla porta della casa della Congregazione delle Suore della Beata Vergine Maria della Misericordia che la accolsero. Il l° agosto 1925 Elena varcava la soglia della clausura nella casa della Congregazione delle Suore della Beata Vergine Maria della Misericordia a Varsavia. In seguito si recò a Cracovia per compiere il noviziato. Durante la cerimonia della vestizione ricevette il nome di Suor Maria Faustina. Finito il noviziato emise i primi voti di castità, povertà ed obbedienza che rinnovò per 5 anni consecutivi fino alla professione perpetua.       Suor Faustina visse in diverse case della Congregazione, più a lungo a Cracovia, poi a Plock, quindi a Wilno, adempiendo principalmente le mansioni di cuoca, giardiniera e portinaia.       L’austerità della vita e i digiuni estenuanti ai quali si sottoponeva ancora prima di entrare nella Congregazione avevano indebolito il suo       organismo e già durante il postulandato fu mandata a Skolimów, vicino a Varsavia, per curarsi. Negli ultimi anni della sua vita si intensificarono le sofferenze interiori e le sofferenze     fisiche: si aggravò la tubercolosi attaccando i polmoni e l’apparato digerente.. Consumata nel corpo e misticamente unita a Dio, morì in      concetto di santità all’età di 33 anni, dopo 13 anni di vita religiosa. Il funerale ebbe luogo il 7 ottobre, il giorno della festa della Madonna del Rosario e primo venerdì del mese. Dopo la Santa Messa, nel corteo funebre, le suore e le educande        portarono a spalla la bara nel     cimitero del convento, dove venne deposta nella tomba. Durante la seconda guerra mondiale si è diffusa     velocemente nel mondo la devozione alla    Misericordia Divina. A seguito di questo don Sopocko ha  ritenuto opportuno rivelare chi era la sua promotrice, la cui fama di santità cresceva di anno in anno. Così si sono realizzate le sue parole   profetiche scritte nel Diario: « Avverto bene che la mia missione non finirà con la mia    morte, ma incomincerà ». Oggi il messaggio della   Misericordia a lei rivelato da Gesù è noto in tutti i continenti e si diffonde rapidamente tra il clero e tra i fedeli. Al Santuario della Misericordia Divina di Lagiewniki a Cracovia, dove si trova      l’immagine di Gesù Misericordioso, fonte di grazia e di    salvezza, e dove dal 1966 riposano i resti mortali di Suor Faustina, giungono pellegrini da tutta la Polonia e da molti paesi del mondo.    Testo (parzialmente ridotto)                                FONTE: www.divinamisericordia.it http://www.santiebeati.it/dettaglio/73200
San Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli) Papa Memoria Facoltativa.
Sotto il Monte, (Bergamo), 25 novembre 1881 – Roma, 3 giugno 1963                                                                                                                                                         
Nel suo breve ma intenso pontificato, durato poco meno di cinque anni, Papa Giovanni era riuscito a farsi amare dal mondo intero. Il 12 ottobre 1958 Angelo Roncalli era partito alla volta di Roma per partecipare insieme agli altri cardinali al conclave, ma non immaginava assolutamente di essere eletto Papa. Il suo desiderio era sempre stato quello di essere un pastore di anime, modesto e semplice come un parroco di campagna. Era nato a Sotto il Monte, piccolo borgo del bergamasco, il 25 novembre 1881, figlio di poveri mezzadri che lo battezzarono il giorno stesso della sua nascita nella locale Chiesa di S. Maria; la stessa dove, divenuto prete, avrebbe celebrato la sua prima Messa, il 15 agosto 1905, festa dell’       Assunzione. Angelino era molto intelligente e terminò le scuole in un lampo, tanto che in seminario era il più giovane della sua classe. A 19 anni aveva completato i corsi, ma per la legge ecclesiastica non poteva essere ordinato sacerdote prima dei 24 anni, così fu mandato a Roma per laurearsi alla Gregoriana. Divenuto prete, rimase per quindici anni a Bergamo, come segretario del vescovo e insegnante al seminario. Allo scoppio della prima guerra mondiale fu chiamato alle armi come cappellano militare. Nel 1921 Roncalli è a Roma e,       successivamente, viene inviato in Bulgaria e in Turchia come visitatore apostolico: iniziava così la sua carriera diplomatica. Nominato Nunzio a Parigi nel 1944, diventa Patriarca di Venezia nel 1953. Un’esistenza piuttosto appartata, senza fatti eclatanti, fino all’elezione al soglio di Pietro. Aveva allora 77 anni ed aveva già fatto testamento. Intendeva essere    sepolto a Venezia e si era fatto costruire la tomba, nella cripta di S. Marco. Il 28 ottobre 1958 l’allora cardinale e patriarca di Venezia salì al soglio pontificio, come successore di Pio XII, e molti ne restarono sorpresi. Un vecchio avrebbe dovuto reggere la Chiesa? I giornali presto ci ricamarono su perché veniva da una famiglia di contadini. “Il papa contadino”,          cominciarono a chiamarlo. Ma Roncalli aveva ben chiara la propria missione da compiere. “Vocabor Johannes…”. Mi chiamerò Giovanni, esordì appena eletto. E non si smentì. Nel 1959, un anno soltanto dopo la sua elezione, annunciò il Concilio Vaticano II. Un evento epocale, destinato a cambiare il volto della Chiesa, a segnare un netto spartiacque nella storia della cristianità. (…) Fu il leit-motiv della sua vita e del suo pontificato. Dopo la S. Messa, nulla era per lui più importante del Rosario. Ogni giorno lo recitava per intero, meditando su ogni mistero Durante il suo pontificato fu pubblicato su “L’Osservatore Romano” un suo “Piccolo saggio di devoti pensieri distribuiti per ogni decina del Rosario, con riferimento alla triplice accentuazione: mistero, riflessione ed intenzione”: in una scrittura limpida e chiara c’è il succo delle riflessioni che egli veniva maturando nella personale preghiera del                 S. Rosario. Papa Giovanni auspicava che il Rosario venisse recitato ogni sera in casa, nelle famiglie riunite, in ogni luogo della terra. Ma quanti oggi si radunano per fare questo? Il  vento gelido della secolarizzazione ha finito per spazzare via questa antica consuetudine. Il suo paese natale da oltre un trentennio è meta incessante di pellegrinaggi. Lo si era  immaginato come un papa di transizione, che sarebbe passato in fretta, presto dimenticato, ma non è stato così. Per un disegno provvidenziale di Dio la giovinezza della Chiesa si è realizzata    attraverso l’opera di un vecchio. Fu veramente un dono inatteso del Cielo. Attento ai segni dei tempi, Papa Giovanni promosse l’ecumenismo e la pace. Uomo del dialogo e della viva carità, fece sentire a tutti gli uomini, anche ai non cattolici e ai lontani, l’amicizia di Dio. Il Martirologium Romanum pone la data di culto al 3     giugno, mentre le diocesi di  Bergamo e di Milano celebrano la sua memoria l’11 ottobre, anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II avvenuta nel 1962. La festa liturgica è iscritta nel Calendario      Romano generale all’11 ottobre, con il grado di memoria facoltativa.              
 Testo (parzialmente ridotto): Maria Di Lorenzo.                                                          FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/55725
SAN Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla) Papa 22 ottobre – Memoria Facoltativa. Wadowice, Cracovia, 18 maggio 1920 – Vaticano, 2 aprile 2005                                 
       Karol Józef Wojtyła, eletto Papa il 16 ottobre 1978, nacque a Wadowice, città a 50 km da Cracovia, il 18 maggio 1920. Era il secondo dei due figli di Karol Wojtyła e di Emilia       Kaczorowska. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932 e suo padre, sottufficiale dell’esercito, nel 1941. A nove anni ricevette la Prima Comunione e a diciotto anni il     sacramento della Cresima. Terminati gli studi, nel 1938 si iscrisse all’Università Jagellónica di Cracovia. Quando le forze di occupazione naziste chiusero l’Università nel 1939, Karol         lavorò (1940-1944) in una cava e nella fabbrica chimica Solvay per potersi guadagnare da vivere ed evitare la deportazione in Germania. A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, frequentò i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo di Cracovia, il Cardinale A. S. Sapieha. Fu anche  uno dei promotori del “Teatro Rapsodico”, anch’esso clandestino. Dopo la guerra, continuò i suoi studi nel seminario maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella Facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione sacerdotale a Cracovia il 1 novembre 1946. Successivamente, fu inviato dal Cardinale Sapieha a Roma, dove conseguì il dottorato in teologia (1948). In quel periodo, esercitò il ministero pastorale tra gli emigranti polacchi in Francia, Belgio e Olanda. Nel 1948 ritornò in Polonia e fu coadiutore  nella parrocchia di Niegowić, vicino a Cracovia, e in quella di San Floriano. Cappellano universitario  fino al 1951,  riprese i suoi studi filosofici e teologici. Nel 1953 presentò  a Lublino una tesi sulla possibilità di   fondare un’etica cristiana a partire dal sistema etico di Max Scheler. Più tardi, divenne professore di Teologia Morale ed Etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di  Teologia di Lublino. Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII lo nominò Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia. Ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale del Wawel (Cracovia), dalle mani dell’Arcivescovo E.Baziak. Il 13 gennaio 1964 fu nominato Arcivescovo di Cracovia da Paolo VI che lo creò Cardinale il 26 giugno 1967. Partecipò al       Concilio Vaticano II (1962-65) con un contributo importante nell’elaborazione della costituzione Gaudium et spes. Il Cardinale Wojtyła prese parte anche alle 5 assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato. Viene eletto Papa il 16 ottobre 1978 e il 22 ottobre segue l’inizio del Suo ministero di Pastore Universale della Chiesa. Dall’inizio del suo Pontificato, Papa Giovanni Paolo II ha compiuto 146 visite pastorali in Italia e, come Vescovo di Roma, ha visitato 317 delle attuali 332 parrocchie romane. I viaggi apostolici nel mondo – sono stati 104. Tra i suoi documenti principali ci sono 14 Encicliche, 15 Esortazioni apostoliche, 11 Costituzioni apostoliche e 45 Lettere apostoliche, oltre che  anche 5 libri: “Varcare la soglia della speranza” (ottobre 1994); “Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio” (novembre 1996); “Trittico romano”, meditazioni in forma di poesia (marzo 2003); “Alzatevi, andiamo!” (maggio 2004) e “Memoria e Identità” (febbraio 2005). Papa Giovanni Paolo II ha celebrato 147 cerimonie di beatificazione – nelle quali ha proclamato 1338 beati – e 51 canonizzazioni, per un totale di 482 santi. Ha tenuto 9 concistori, in cui ha creato 231 (+ 1 in pectore) Cardinali. Ha presieduto anche 6 riunioni plenarie del Collegio Cardinalizio. Dal 1978 ha convocato 15 assemblee del Sinodo dei Vescovi: 6        generali ordinarie (1980, 1983, 1987, 1990; 1994 e 2001), 1 assemblea generale straordinaria (1985) e 8 assemblee speciali (1980, 1991, 1994, 1995, 1997, 1998 [2] e 1999). Nessun Papa ha incontrato tante persone come Giovanni Paolo II: alle Udienze Generali del mercoledì (oltre 1160) hanno partecipato più di 17 milioni e 600mila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose (più di 8 milioni di pellegrini solo nel corso del Grande Giubileo dell’anno 2000), nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel   mondo; 38 le visite   ufficiali e le altre 738 udienze o incontri con Capi di Stato, come pure le 246 udienze e incontri con Primi Ministri. Muore a  Roma, nella Città del Vaticano, alle ore 21.37 di sabato 2 aprile 2005. I solenni funerali in Piazza San Pietro e la sepoltura nelle Grotte Vaticane seguono l’8 aprile. La festa liturgica è iscritta nel Calendario Romano generale al 22 ottobre, con il grado di memoria facoltativa.                
Testo (parzialmente ridotto)      FONTE: www.karol-wojtyla.org http://www.santiebeati.it/dettaglio/90026
San Giuseppe Sposo della Beata Vergine Maria 19 marzo (nel 2017: 20 marzo)       
Il nome Giuseppe è di origine ebraica e sta a significare “Dio aggiunga”, estensivamente si può dire “aggiunto in famiglia”. Può essere che l’inizio sia avvenuto col nome del figlio di Giacobbe e Rachele, venduto per gelosia come schiavo dai fratelli. Ma è sicuramente dal padre putativo, cioè ritenuto tale, di Gesù e considerato anche come l’ultimo dei                   patriarchi, che il nome Giuseppe andò diventando nel tempo sempre più popolare. In Oriente dal IV secolo e in Occidente poco prima dell’XI secolo, vale a dire da quando il suo culto cominciava a diffondersi tra i cristiani. Non vi è dubbio che la fama di quel nome si rafforzò in Europa dopo che nell’Ottocento e nel Novecento molti personaggi della storia e della   cultura lo portarono laicamente, nel bene e nel male: da Francesco Giuseppe d’Asburgo a Garibaldi, da Verdi a Stalin, da Garibaldi ad Ungaretti e molti altri.   San Giuseppe fu lo sposo di Maria, il capo della “sacra famiglia” nella quale nacque, misteriosamente per opera dello Spirito Santo, Gesù figlio del Dio Padre. E orientando la propria vita sulla lieve traccia di alcuni sogni, dominati dagli angeli che recavano i messaggi del Signore, diventò una luce dell’esemplare paternità. Certamente non fu un assente. È vero, fu molto silenzioso, ma fino ai trent’anni della vita del Messia, fu sempre accanto al figliolo con fede, obbedienza e disponibilità ad accettare i piani di Dio. Cominciò a scaldarlo nella povera culla della stalla, lo mise in salvo in Egitto quando fu necessario, si preoccupò nel cercarlo allorché dodicenne era “sparito’’ nel tempio, lo ebbe con sé nel lavoro di falegname, lo aiutò con Maria a        crescere “in sapienza, età e grazia”. Lasciò probabilmente Gesù poco prima che “il Figlio dell’uomo” iniziasse la vita pubblica, spirando serenamente tra le sue braccia. Non a caso quel padre da secoli viene venerato anche quale patrono della buona morte.   Giuseppe era, come Maria, discendente della casa di Davide e di stirpe regale, una nobiltà nominale, perché la vita lo costrinse a fare l’artigiano del paese, a darsi da fare nell’accurata lavorazione del legno. Strumenti di lavoro per contadini e pastori nonché umili mobili ed oggetti casalinghi per le povere abitazioni della Galilea uscirono dalla sua bottega, tutti costruiti dall’abilità di quelle mani ruvide e callose.   Di lui non si sanno molte cose sicure, non più di quello che       canonicamente hanno riferito gli evangelisti Matteo e Luca. Intorno alla sua figura si sbizzarrirono invece i cosiddetti vangeli apocrifi. Da molte loro leggendarie notizie presero però le distanze personalità autorevoli quali San Girolamo (347 ca.-420), Sant’Agostino (354-430) e San Tommaso d’Aquino (1225-1274). Vale la pena di riportare   una leggenda che circolò intorno al suo matrimonio con Maria. In quella occasione vi sarebbe stata una gara tra gli aspiranti alla mano della giovane. Quella gara sarebbe stata vinta da Giuseppe, in quanto il bastone secco che lo rappresentava, come da regolamento, sarebbe improvvisamente e   prodigiosamente fiorito. Si voleva ovviamente con ciò significare come dal ceppo inaridito del Vecchio Testamento fosse rifiorita la grazia della Redenzione.   San Giuseppe non è solamente il patrono dei padri di famiglia come “sublime       modello di vigilanza e provvidenza” nonché della Chiesa universale, con festa solenne il 19 marzo. Egli è oggi anche molto festeggiato in campo liturgico e sociale il 1° maggio quale patrono degli artigiani e degli operai, così proclamato da papa Pio XII. Papa Giovanni XXIII gli affidò addirittura il Concilio Vaticano II. Vuole la tradizione che egli sia protettore in maniera specifica di falegnami, di ebanisti e di carpentieri, ma anche di pionieri, dei senzatetto, dei Monti di Pietà e relativi prestiti su pegno. Viene addirittura pregato, forse più in passato che oggi, contro le tentazioni             carnali.   Che il culto di San Giuseppe   abbia raggiunto in passato vette di popolarità lo dimostrano le dichiarazioni di moltissime chiese relative alla presenza di sue reliquie. Per fare qualche esempio: nella chiesa di Notre-Dame di Parigi ci sarebbero gli anelli di fidanzamento, il suo e quello di  Maria; Perugia possiederebbe il suo anello nuziale; nella chiesa parigina dei Foglianti si troverebbero i frammenti di una sua cintura. Ancora: ad Aquisgrana si espongono le fasce o calzari che avrebbero avvolto le sue gambe e i camaldolesi della chiesa di S. Maria degli Angeli in Firenze       dichiarano di essere in possesso del suo bastone. È sicuramente un bel “aggiunto” di fede.   La data di culto di San Giuseppe in alcuni anni viene trasferita. Questo avviene quando il 19 marzo cade nella Settimana santa (ad esempio, nel 2008) o coincide con una Domenica di Quaresima (nel 1995 e nel 2017) o con la Domenica delle Palme.
FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/20200   Autore: Mario Benatti.
San Michele Arcangelo 29 settembre                                                                                                   
Il 29 settembre la Liturgia della Chiesa ricorda la festività di San Michele Arcangelo. Il suo nome deriva dall’espressione «Mi-ka-El», che significa «chi è come Dio?» e poiché     nessuno è come l’Onnipotente, l’Arcangelo combatte tutti coloro che si innalzano con superbia, sfidando l’Altissimo. 
 Nella Tradizione Michele è l’antitesi di Lucifero, capo degli angeli che decisero di fare a meno di Dio e perciò precipitarono negli Inferi. Michele, generale degli angeli, è colui che difende la Fede, la Verità e la Chiesa. Maria Vergine e l’Arcangelo Michele sono associati nel loro combattimento contro il demonio ed entrambi, iconograficamente parlando, hanno sotto i loro piedi, a seconda dei casi, il serpente, il drago, il diavolo in persona, che l’Arcangelo tiene incatenato e lo minaccia, pronto a trafiggerlo, con la sua spada.      Michele è stato sempre rappresentato e venerato come l’angelo-guerriero di Dio, rivestito di armatura dorata in perenne lotta contro il Demonio, che continua nel mondo a    spargere il male e la ribellione contro Dio. Egli è considerato allo stesso modo nella Chiesa di Cristo, che gli ha sempre riservato fin dai tempi antichissimi, un culto e devozione particolare, considerandolo sempre presente nella lotta che si combatte e si combatterà fino alla fine del mondo, contro le forze del male che operano nel genere umano.  La sua festa liturgica principale in Occidente è iscritta nel Martirologio Romano al 29 settembre e nella riforma del calendario liturgico del 1970, è accomunato agli altri due arcangeli più conosciuti, Gabriele e Raffaele nello stesso giorno, mentre l’altro arcangelo a volte nominato nei testi apocrifi, Uriele, non gode di un culto proprio. Per la sua caratteristica di “guerriero celeste” s. Michele è patrono degli spadaccini, dei maestri d’armi; poi dei doratori, dei commercianti, di tutti i mestieri che usano la bilancia, i farmacisti, pasticcieri, droghieri, merciai; fabbricanti di tinozze, inoltre è patrono dei radiologi e della Polizia. È patrono principale delle città italiane di Cuneo, Caltanissetta, Monte Sant’Angelo, Sant’Angelo dei Lombardi, compatrono di Caserta. Difensore della Chiesa, la sua statua compare, oltre che sulla sommità di Castel S. Angelo a Roma, che come è noto era       diventata una fortezza in difesa del Pontefice; protettore del popolo cristiano, così come un tempo lo era dei pellegrini medievali, che lo invocavano nei santuari ed oratori a lui dedicati, disseminati lungo le strade che conducevano alle mete dei pellegrinaggi, per avere protezione contro le malattie, lo scoraggiamento e le imboscate dei banditi. Per quanto riguarda la sua raffigurazione nell’arte in generale, è delle più vaste; ogni scuola pittorica in Oriente e in Occidente, lo ha quasi sempre raffigurato armato in atto di combattere il demonio. Sul Monte Athos nel convento di Dionisio del 1547, i tre principale        arcangeli sono così raffigurati, Raffaele in abito ecclesiastico, Michele da guerriero e Gabriele in pacifica posa e rappresentano i poteri     religioso,   militare e civile.     
 Testo (parzialmente ridotto):  Antonio Borrelli                                                                  FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/21600
Santa Rita da Cascia Vedova e religiosa 22 maggio – Memoria Facoltativa Roccaporena, presso Cascia, Perugia, c. 1381 – Cascia, Perugia, 22 maggio 1447/1457
Rita da Cascia è stata beatificata 180 anni dopo la sua morte e proclamata santa a 453 anni dalla morte. Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti. Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e dopo dodici anni nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza. Alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso: i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini. E un giorno mentre la piccola      riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le  circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per   correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio. Aveva tredici anni quando i  genitori la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, brutale e violento. Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei            fidanzati e dovette cedere alle insistenze dei genitori e sposò  quel giovane ufficiale comandante  la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”. Da lui sopportò ogni    maltrattamento, senza lamentarsi. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie. I figli  Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che  riteneva legittima la vendetta. E quando, dopo qualche anno, a Rita morirono i due anziani genitori e il marito fu ucciso in un’imboscata mentre tornava a casa da Cascia, per  opera, forse, di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite. Ai figli quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a  vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di  vendette. Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fa’ di loro secondo la tua volontà”. Un anno dopo i due fratelli si  ammalarono e morirono.  Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore  Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta; ma fu respinta tre volte. Successivamente, benché        illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma  evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni. Condusse una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò condividerne i dolori. Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione  davanti al Crocifisso, sentì una  spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne          putrescente. La ferita scomparve   soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, per perorare la causa di   canonizzazione di s. Nicola da Tolentino. Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, ma anche dai   digiuni e dall’uso dei flagelli; negli ultimi quattro anni si cibava poco e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio. E avvenne un altro         prodigio: essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente la quale, nel congedarsi, le chiese se desiderava qualcosa della sua     casa di Roccaporena; Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto; la parente obiettò che si era in pieno inverno. Tornata a Roccaporena, la parente si recò nell’orticello e, in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata. Stupita, la colse e la portò da Rita a Cascia Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori   vengono benedetti e distribuiti ai fedeli. Il 22 maggio 1447 (o 1457, come viene ritenuto) Rita si spense, mentre le  campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo.                                                                                        Testo parzialmente modificato): Antonio Borrelli                                                                                                                         
FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/32950
Santa Teresa di Calcutta (Agnes Gonxha Bojaxhiu) Vergine, Fondatrice Skopje, Macedonia, 26 agosto 1910 – Calcutta, India, 5 settembre 1997                          
       Quando si entra in una chiesa o cappella delle Missionarie della Carità, non si può non notare il crocefisso che sovrasta l’altare, al fianco del quale si trova la scritta: «I thirst» («Ho sete»): qui sta la sintesi della vita e delle opere di Santa Teresa di Calcutta, canonizzata il 4 settembre scorso da Papa Francesco in piazza San Pietro, alla presenza di 120 mila fedeli e pellegrini. Donna di fede, di speranza, di carità, di indicibile coraggio, Madre Teresa aveva una spiritualità cristocentrica ed eucaristica. Usava dire: «Io non posso immaginare neanche un istante della mia vita senza Gesù. Il premio più grande per me è amare Gesù e servirlo nei poveri». Questa suora, dall’abito indiano e dai sandali francescani, estranea a nessuno, credenti, non credenti, cattolici, non cattolici, si fece apprezzare e stimare in India, dove i seguaci di Cristo sono la minoranza. Nata il 26 agosto 1910 a Skopje (Macedonia) da famiglia benestante albanese, Agnes crebbe in una tribolata e dolorosa terra, dove convivevano cristiani, musulmani, ortodossi; proprio per tale ragione non le fu difficile operare in India, uno Stato dalle lontane tradizioni di tolleranza – intolleranza religiosa, a seconda dei periodi storici. Madre Teresa definiva così la sua identità: «Di sangue sono albanese. Ho la cittadinanza indiana. Sono una monaca cattolica. Per vocazione appartengo al mondo intero. Nel cuore sono totalmente di Gesù  A 18 anni Agnes entra nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto: partita nel 1928 per l’Irlanda, un anno dopo è già in India. Nel 1931 emette i primi voti, prendendo il nuovo nome di suor Maria Teresa del Bambin Gesù, perché molto devota della mistica carmelitana santa Teresina di Lisieux. Per circa vent’anni insegnò storia e geografia alle giovani di famiglie facoltose frequentanti il collegio delle  Suore di Loreto a Entally (zona orientale di Calcutta). Poi arriva la vocazione nella vocazione: era il 10 settembre 1946 quando avvertì, mentre si recava in treno ad un corso di esercizi spirituali a Darjeeling, la voce di Cristo che la chiamava a vivere in mezzo agli ultimi degli ultimi. Il 16 agosto 1948, la piccola Gonxha di Skopje diventava Madre Teresa e iniziava da questo momento la sua corsa da gigante. Lascia, non senza difficoltà, il prestigioso convento e da sola si incammina, con un sari bianco (colore del lutto in India) bordato di azzurro (colore mariano), per gli slums di Calcutta in cerca dei dimenticati, dei paria, dei moribondi, che arriva a raccogliere, circondati dai topi, persino nelle fogne.  A poco a poco si aggregano alcune sue ex-allieve e altre ragazze ancora e il 7 ottobre 1950 la nuova Congregazione ottiene il suo primo riconoscimento, l’approvazione diocesana. E mentre, anno dopo anno,     l’Istituto delle Suore della Carità cresce in tutto il mondo, la famiglia Bojaxhiu viene espropriata di tutti i suoi beni dal governo di Hoxha, e, rea del suo credo religioso, viene aspramente perseguitata. La «piccola matita di Dio» (come soleva autodefinirsi, cioè un piccolo semplice strumento fra le Sue mani), riconosceva, con umiltà, che quando la matita sarebbe         diventata un mozzicone inutile, il Signore l’avrebbe buttata via, affidando ad altri la sua missione apostolica,. E’ più volte intervenuta pubblicamente e con forza, anche di fronte a    uomini politici e di Stato sulla condanna dell’aborto e dei metodi di contraccezione artificiali. Ha «fatto sentire la sua voce ai potenti della terra» ha detto, infatti, Papa Francesco   nell’omelia della canonizzazione. Come non ricordare, allora, il memorabile discorso che tenne alla consegna del Premio Nobel per la Pace del 17 ottobre 1979 ad Oslo? Affermò infatti di accettare il Premio esclusivamente a nome dei poveri, sorprendendo  tutti per l’attacco durissimo all’aborto, che presentò come la principale minaccia alla pace nel mondo. Si addormentò nel Signore il 5 settembre (giorno della sua memoria liturgica) 1997 con un rosario fra le mani. Questa «goccia di acqua pulita», questa Marta e Maria inscindibili, ha lasciato in eredità un paio di sandali, due sari, una borsa di tela, due-tre quaderni di appunti, un libro di preghiere, un rosario, un golf di lana e…una miniera spirituale di inestimabile valore, alla quale attingere a profusione in questi nostri confusi giorni, spesso dimentichi della presenza di Dio. “Anche chi crede in me compirà le opere che io compio, e ne farà di più grandi” (cfr. Gv 14, 12).  Aveva 87 anni. Il 26 luglio 1999 è stato aperto, con ben tre anni di anticipo sui cinque previsti dalla Chiesa, il suo processo di beatificazione; e ciò per volontà del S. Padre che, in via del tutto eccezionale, ne ha voluto accelerare la procedura: per la gente Madre Teresa è già santa. Il suo messaggio è sempre attuale: che ognuno cerchi la sua Calcutta, presente pure sulle strade del ricco Occidente, nel ritmo frenetico delle nostre città. “Puoi trovare Calcutta in tutto il mondo – lei diceva – , se hai occhi per vedere. Dovunque ci sono i non amati, i non voluti, i non curati, i respinti, i dimenticati”. I suoi figli spirituali        continuano in tutto il mondo a servire “i più poveri tra i poveri” in orfanotrofi, lebbrosari, case di accoglienza per anziani, ragazze madri, moribondi. In tutto sono 5000, compresi i due rami maschili, meno noti, distribuiti in circa 600 case sparse per il mondo; senza contare le molte migliaia di                 volontari e laici consacrati che portano avanti le sue opere. “Quando sarò morta – diceva lei –, potrò aiutarvi di più…”.                                                                                    Testo (parzialmente ridotto): Cristina Siccardi
FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/90013
Santa Teresa Margherita (Redi) del Cuore di Gesù Vergine 7 marzo Arezzo, 1 settembre 1747 – Firenze, 7 marzo 17                                                                                                  
La vigilia della festa della Madonna del Carmelo dell’anno 1747, ad Arezzo, nella nobile famiglia Redi, venne alla luce Anna Maria, seconda di tredici figli. In un ambiente familiare profondamente cristiano: ripetutamente chiedeva ai genitori e agli zii che le parlassero di Gesù e cosa dovesse fare per piacergli. Amava ritirarsi nella sua stanza per pregare ed    ammirare i suoi “santini”. All’età di nove anni, per la sua formazione, sia cristiana che umanistica, fu mandata a Firenze con la sorella Eleonora Caterina, all’Educandato delle         Benedettine di S. Apollonia. Qui, felice e serena, trascorse la sua adolescenza. Ricevette la Prima Comunione il giorno dell’Assunta del 1757. Il  suo maggior confidente era il padre, Ignazio Maria Redi, uomo illuminato e religioso. Tra i due iniziò un intenso rapporto epistolare, andato purtroppo quasi interamente perduto per la vicendevole promessa di dare al fuoco le lettere. Anna Maria più volte disse che era grata al padre, più per quello che le insegnava, che di averla generata fisicamente. Dopo aver letto la vita di S. Margherita Maria Alacoque nacque in lei una grande devozione al Sacro Cuore, amore intimo a Cristo. All’età di diciassette anni, seguendo l’esempio dell’amica Cecilia Albergotti, sentì la vocazione ad entrare nel Carmelo; il distacco dalla famiglia fu dolorosissimo. Il 1° settembre 1764 fu accolta nel Monastero di S. Maria degli Angeli di Firenze. Fece la professione religiosa il 12 marzo 1766 divenendo suor Teresa Margherita del Cuor di Gesù. Scrupolosa nel rispetto della Regola, amava molto la preghiera mentale, anche notturna. Un amabile sorriso era sempre   impresso sul suo volto. Spiritualità carmelitana dunque con una profonda devozione al Cuore di Gesù, sorgente di vita e d’amore. Attraverso le testimonianze del padre e del direttore   spirituale, P. Ildefonso di S. Luigi, conosciamo la sua scalata alla santità. All’atto della professione religiosa, per amore di Gesù, rinunciò a quello cui maggiormente teneva: il rapporto epistolare col padre. Le costò tantissimo ma si promisero che da lì in poi, ogni sera, prima del riposo, si sarebbero incontrati nel Cuore di Gesù. Chiese al confessore il     permesso di fare l’offerta della Alacoque: porre la propria volontà nella piaga del costato di Cristo ed entrare nel suo Cuore. Si sentiva però piccola e la sua più grande preoccupazione era di non amare abbastanza. L’amore a Dio si concretizzò nella mansione di aiuto infermiera che esercitò con straordinaria abnegazione. Tra l’altro in quel periodo le consorelle  malate ed anziane erano molte. La sua stessa comunità divenne strumento di mortificazione e così, nell’ultimo Capitolo, suor Teresa Margherita fu rimproverata perché, per          l’eccessivo lavoro in infermeria, sembrava trascurasse la vita contemplativa. Il totale dominio di sé, dopo un breve smarrimento, le fece    superare il rimprovero con ironia. Di S. Teresa Margherita Redi possediamo pochi scritti: alcune lettere, vari biglietti che amava dare alle  consorelle con pensieri e massime, i propositi per gli esercizi del 1768 e un altro breve proposito. La sua ardente devozione le fece               raggiungere un’altissima esperienza mistica,  testimone di ciò che la preghiera può operare in un’anima. Pur senza avere molte conoscenze teologiche fu attentissima alla comprensione della Sacra Scrittura. Ebbe molto cara anche la lettura delle opere della S. Madre Teresa e il suo invito a far posto a Dio col silenzio interiore. Fece celebrare, per la prima volta, la festa del Sacro Cuore nella sua comunità,    predisponendo ogni particolare perché fosse solenne. In    questo fu sostenuta dal padre e dallo zio, il gesuita Diego Redi. Una peritonite fulminea, dopo diciotto ore di atroci sofferenze, le fece   incontrare lo Sposo Celeste, tanto amato e desiderato. Dimentica di sé, poche ore prima di morire, continuava a preoccuparsi delle consorelle ammalate. Morì, a neppure ventitré anni, il 7 marzo 1770. Il suo corpo emanava un profumo   soave e ancora oggi è conservato incorrotto nel Monastero delle Carmelitane Scalze di Firenze (in passato antica villa della famiglia Redi). Il 19 marzo 1934, Papa Pio XI la proclamò santa definendola “neve ardente”. L’esistenza breve di questa semplice suora, è oggi di esempio alla chiesa universale. Il Martyrologium Romanum la ricorda il 7 marzo, l’Ordine Carmelitano la festeggia il 1°settembre.                                                                                                                                                           
Testo: Daniele Bolognini , parzialmente riprodotto.                                                      FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/90051
San Vincenzo di Saragozza Diacono e martire 22 gennaio
Memoria Facoltativa sec. III/IV                                                                                                                                                     
Un diacono così, ora che il diaconato è tornato “di moda” nella Chiesa, ogni vescovo se lo sognerebbe. Perché, si sa, non tutti i vescovi sono degli oratori nati e quello di Saragozza, Valerio, è per giunta balbuziente. Trovare in Vincenzo un diacono ben equipaggiato culturalmente, dotato nella parola, generoso e coraggioso è per lui un vero colpo di fortuna. Oggi San Vincenzo è il martire più popolare della Spagna, ma doveva già esserlo 1700 anni fa se ben tre città, Valencia, Saragozza e Huesca, si contendono l’onore di avergli dato i natali. In questa disputa noi non vogliamo entrare, limitandoci ai dati essenziali che ci vengono forniti dagli Atti del suo martirio, che avviene durante la persecuzione di Diocleziano. Nel clima di terrore che si instaura e che vede la distruzione degli edifici e degli arredi sacri, la destituzione dei cristiani che ricoprono cariche pubbliche, l’obbligo per tutti di sacrificare agli dei, il vescovo Valerio e il diacono Vincenzo continuano imperterriti nell’annuncio del Vangelo: formano un connubio indissolubile, nel quale il primo con la sua presenza e con l’autorità che gli deriva dal ministero episcopale si fa garante di quello che il secondo annuncia con forza, convinzione e facilità di parola. Così il governatore di Valencia, Daciano, li fa arrestare  entrambi, ma quando se li trova davanti capisce che il vero nemico da combattere è il diacono Vincenzo. Manda così il vescovo in esilio e concentra tutte le sue arti persecutorie su Vincenzo, che oltre ad essere un gran oratore è anche un uomo che non si piega facilmente. Lo dice in faccia al governatore: “Vi stancherete prima voi a tormentarci che noi a soffrire”, e questo manda in bestia il persecutore, che vede così anche messa in crisi la sua autorità e il suo prestigio. Perché Vincenzo è una di quelle persone che si piegano ma non si spezzano: prima lo fa fustigare e torturare; poi lo condanna alla pena del cavalletto, da cui esce con le ossa slogate; infine lo fa arpionare con uncini di ferro. Così tumefatto e slogato lo fa    gettare in una cella buia, interamente cosparsa di cocci taglienti, ma la testimonianza di Vincenzo continua ad essere limpida e ferma: “Tu mi fai proprio un servizio da amico, perché ho sempre desiderato suggellare con il sangue la mia fede in Cristo. Vi è un altro in me che soffre, ma che tu non potrai mai piegare. Questo che ti affatichi a distruggere con le torture è un debole vaso di argilla che deve ad ogni modo spezzarsi. Non riuscirai mai a lacerare quello che resta dentro e che domani sarà il tuo giudice”. Lo sentono addirittura, anche così piagato, cantare dalla cella e Daciano si rende conto che quella è una voce da far zittire in fretta, visto che qualcuno si è già convertito vedendolo così forte nella fede. Muore il 22   gennaio dell’anno 304 ed anche per sbarazzarsi del cadavere Daciano deve sudare: gettato in pasto alle bestie selvatiche, il suo corpo viene alacramente difeso da un corvo; gettato nel fiume, legato in un sacco insieme ad un grosso macigno, il suo corpo galleggia e torna a riva, dove finalmente i cristiani lo raccolgono per dargli onorata sepoltura. Da una delle omelie che Sant’Agostino ogni anno, il 22 gennaio, dedicava al martire Vincenzo ricaviamo questo pensiero: “il diacono Vincenzo….. aveva    grande coraggio nel parlare, aveva forza nel soffrire. Nessuno presuma di se stesso quando parla. Nessuno confidi nelle sue forze quando  sopporta una tentazione, perché, per parlare bene, la sapienza viene da Dio e, per  sopportare i mali, da lui viene la   fortezza”.                                                                                                                                           
Testo (parzialmente ridotto): Gianpiero Pettiti                                                                     FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/25850

 

La Vetrata realizzata

Finalmente si realizzeranno, con le offerte dei parrocchiani, le 14 vetrate che furono deliberate in occasione del 50° della consacrazione della chiesa del 2014.

Sono state definite le condizioni per la fornitura prima della Santa Pasqua.

Prossimamente pubblicheremo i bozzetti e notizie sui 14 personaggi che verranno raffigurati nelle vetrate.